Il gatto sul fuoco e i doni della morte

La resurrezione è un incantesimo che ha sempre diviso i giocatori di D&D. Da una parte è utile perché permette di salvare un PG, magari ben interpretato da una morte ”inutile” dal punto di vista narrativo. A parte “l’Old School” dove l’alta mortalità ha un senso nell’ambito di un’avventura Sword and Sorcery, la campagna “moderna” stile Dragonlance richiede che l’eventuale morte di un PG abbia un effetto drammatico, stile Sturm o Boromir per intendersi e non perché il Goblin ha inanellato tre critici di seguito. Infatti, se prendiamo come esempio la 3.x/Pathfinder, gli incantesimi di resurrezione appaiono, quando i mostri di pari grado di sfida hanno la possibilità di uccidere a livello teorico un PG in un round, mentre nelle edizioni precedenti quando iniziavano ad avere spesso poteri o incantesimi del tipo salva o muori.

I detrattori invece puntano il dito su una serie di problemi legati a questo incantesimo. Il primo è a livello di ambientazione: un mondo dove esiste una potente magia divina, avrà una società e dei valori completamente differenti dal “pseudo medievale fantasy” su cui si basa D&D. Consideriamo un villaggio dove ogni malattia può essere istantaneamente curata. Come vedrebbero gli abitanti quel sacerdote che ha salvato la loro vita e quella dei propri cari e che gli ha fornito la prova certa dell’esistenza della loro anima e di un futuro dopo la morte? Queste persone sarebbero leali fino al fanatismo nei suoi confronti e non esiterebbero a combattere una “minaccia” alla propria chiesa. Pensate al potere politico della chiesa nel medioevo e moltiplicatela per cento……

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Pubblicato da vodacce

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